In caso di disabilità grave di solito non ci sono problemi perché l’assolvimento all’obbligo non è vincolante (DPR 297-1994 art 114 comma 5) ma va comunque dimostrato.
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Se a causa della lentezza della burocrazia di ASL e INPS la certificazione di disabilità tarda ad arrivare, cosa fare?
La scuola può sollecitare gli specialisti ASL, e intanto avvalersi della normativa sui BES e redigere un PDP, con tutti gli accorgimenti del caso, con il consenso dei genitori.
Può comunque mettere in atto tutte le forme di adattamento che ritiene necessarie per aiutare e sostenere gli alunni (del resto si apprende solo ciò che si può) in attesa di una diagnosi più precisa sui bisogni.
La normativa italiana, in particolare la Circolare MIUR sui BES n 8 del 6-3-2013 , sottolinea l’importanza di adottare strumenti compensativi e misure dispensative anche in presenza di una semplice segnalazione, al fine di non penalizzare lo studente in attesa della diagnosi ufficiale.
In pratica, la scuola può (e dovrebbe) elaborare un PDP (Piano Didattico Personalizzato) provvisorio, aggiornandolo ee trasformandolo in un PEI una volta ricevuta tutta la documentazione necessaria.
Questo permette allo studente di affrontare l’anno scolastico con il supporto necessario e con valutazioni più eque, anche in fase di scrutinio finale.
Se lo studente ha una disagnosi privata, ma la scuola come da normativa attende che questa sia convalidata dall’ASL, cosa fare nel frattempo?
La scuola non può ignorare una diagnosi redatta da uno specialista anche se privato, deve farsene carico fin dal primo giorno, non è obbligatorio il PDP , in questi casi (normativa BES), ma l’utilizzo di strategie utili a supportare lo studente è dovuto.
Suggerimenti su come condividere il PEI nel rispetto della privacy dei dati sensibili
La condivisione del Piano Educativo Individualizzato (PEI) tra tutti i membri del Gruppo di Lavoro Operativo (GLO) è fondamentale per garantire un intervento educativo e didattico efficace e coerente. Tuttavia, è altrettanto importante assicurarsi che tale condivisione avvenga nel pieno rispetto delle normative sulla privacy, in particolare in relazione ai dati sensibili dello studente.
Per conciliare questi due aspetti, la scuola può adottare le seguenti modalità operative:
- Oscuramento dei dati sensibili non necessari
Nella condivisione del PEI, devono essere riportate solo le informazioni strettamente funzionali agli obiettivi educativi. Dati sanitari o altre informazioni particolarmente delicate possono essere oscurati, evitando dettagli superflui che non siano utili ai fini educativi. - Utilizzo del registro elettronico
Il PEI può essere caricato all’interno del registro elettronico, nella sezione riservata esclusivamente a chi ha diritto a vederli (membro del GLO), magari nella parte riservata alla famiglia dello studente. Questo strumento, già conforme ai criteri di sicurezza e protezione dei dati, permette una diffusione controllata e tracciabile del documento. - Condivisione tramite Google Drive con account istituzionali
Un’ulteriore modalità di condivisione può essere l’utilizzo di una cartella su Google Drive, protetta da accesso selettivo. L’accesso sarà consentito unicamente agli indirizzi email istituzionali dei componenti del GLO, garantendo così che solo persone autorizzate possano visualizzare e/o modificare il documento. È essenziale che gli account utilizzati siano forniti e gestiti dall’istituzione scolastica, per assicurare la tracciabilità e la sicurezza dei dati. - Piattaforma SIDI Quando entrerà in funzione il PEI in formato digitale sarà accessibile a tutti i componenti del GLO (DIgs 182/20 art. 4 c. 10) ma non sarà stampabile.
Attraverso queste modalità, la scuola può garantire una collaborazione efficace tra tutti i membri del GLO, senza compromettere la riservatezza delle informazioni personali dello studente, in piena conformità con il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) e le linee guida del Ministero dell’Istruzione.
Il diritto ad avere pieno accesso al PEI COMPLETO (senza dati oscurati) è solo dei genitori o tutori legali
I genitori/tutori degli studenti minorenni – in quanto tutori dei loro dati personali e sensibili – sono gli unici membri del GLO ad avere diritto a consultare l’intero contenuto del PEI senza limitazioni o oscuramenti. A loro spetta il pieno accesso al documento completo, come previsto dalla normativa vigente in materia di protezione dei dati personali.
Terapia Cognitivo Comportamentale e Psicomotricità: Cosa Sono e in Cosa Differiscono
Nel mondo della salute mentale e dello sviluppo infantile, si sente spesso parlare di Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) e di Psicomotricità.
Entrambe sono forme di intervento terapeutico, ma rispondono a bisogni diversi e si basano su approcci distinti. Vediamo insieme in cosa consistono e quali sono le principali differenze.
Che cos’è la Terapia Cognitivo Comportamentale?
La Terapia Cognitivo Comportamentale è un approccio psicologico strutturato, basato sull’idea che pensieri, emozioni e comportamenti siano strettamente collegati. Se una persona ha pensieri negativi o disfunzionali, questi possono influenzare le sue emozioni e portare a comportamenti problematici.
L’obiettivo della TCC è aiutare la persona a riconoscere i pensieri automatici negativi, metterli in discussione e sostituirli con pensieri più realistici e utili. Questo cambiamento cognitivo porta a una riduzione dei sintomi come ansia, depressione, fobie, o comportamenti disfunzionali.
La TCC è una terapia orientata al presente, basata su obiettivi concreti, ed è solitamente a breve termine. Può essere utilizzata con adulti, adolescenti e bambini.
📌 Esempio pratico 1: bambino con ansia scolastica
Matteo, 10 anni, prova ansia intensa ogni mattina prima di andare a scuola. Pensa: “Farò brutta figura, tutti rideranno di me”. In TCC, Matteo impara a riconoscere questo pensiero come irrealistico. Con l’aiuto del terapeuta, costruisce pensieri alternativi più realistici, come “Posso sbagliare, ma posso anche imparare”. Viene guidato in piccoli esercizi per affrontare gradualmente le situazioni che gli causano ansia.
📌 Esempio pratico 2: adolescente con bassa autostima
Giulia, 15 anni, si definisce “inutile” dopo aver preso un brutto voto. In TCC, viene aiutata a collegare il pensiero negativo all’emozione di tristezza e al comportamento di ritiro sociale. Il terapeuta le insegna a mettere in discussione l’idea di essere inutile, osservando invece i suoi punti di forza e affrontando situazioni nuove con strategie più costruttive.
Che cos’è la Psicomotricità?
La Psicomotricità è un approccio educativo e terapeutico che considera la persona nella sua unità di corpo e mente, soprattutto nei bambini. Si basa sull’idea che il movimento e l’espressione corporea siano strettamente collegati allo sviluppo emotivo e relazionale.
Le sedute di psicomotricità prevedono attività ludiche, esercizi motori, giochi simbolici e momenti di rilassamento, con l’obiettivo di aiutare il bambino a sviluppare le proprie capacità motorie, relazionali ed emotive. Il corpo è visto come uno strumento di comunicazione, soprattutto quando il linguaggio verbale non è ancora pienamente sviluppato.
La psicomotricità è spesso indicata in casi di ritardi nello sviluppo, difficoltà relazionali, disturbi dell’attenzione, iperattività, disturbi del comportamento o difficoltà emotive nei più piccoli.
Durante le sedute, il bambino si esprime attraverso attività motorie, gioco simbolico, uso dello spazio e degli oggetti, all’interno di una relazione empatica con il terapista.
📌 Esempio pratico 1: bambino con iperattività
Luca, 6 anni, ha difficoltà a stare fermo e ad ascoltare. Durante le sedute di psicomotricità, Luca può correre, saltare e muoversi in uno spazio sicuro e strutturato. Attraverso giochi con regole semplici, impara gradualmente a regolare il proprio corpo e a rispettare i turni, migliorando così anche l’attenzione a scuola.
📌 Esempio pratico 2: bambina timida con difficoltà relazionali
Emma, 5 anni, parla poco e ha difficoltà a giocare con gli altri. In psicomotricità, attraverso giochi simbolici con pupazzi, travestimenti e costruzioni, esplora le sue emozioni e il mondo relazionale in modo protetto. Con il tempo, inizia a condividere lo spazio con altri bambini e a partecipare attivamente alle attività.
Differenze principali tra TCC e Psicomotricità
Aspetto | Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) | Psicomotricità |
Target | Bambini, adolescenti, adulti | Soprattutto bambini (età prescolare e scolare) |
Focus | Pensieri e comportamenti | Corpo, movimento, espressività |
Obiettivi | Cambiamento di schemi mentali e comportamentali | Sviluppo globale e armonico (motorio, affettivo, relazionale) |
Metodo | Colloqui, compiti a casa, tecniche cognitive | Gioco, attività motorie, relazione corporea |
Durata | Spesso breve e focalizzata su problemi specifici | Può essere più lunga, con approccio educativo-terapeutico |
Quando scegliere l’uno o l’altro?
La scelta tra TCC e psicomotricità dipende dal tipo di difficoltà che presenta la persona (o il bambino) e dall’età. In alcuni casi, i due approcci possono completarsi: per esempio, un bambino con difficoltà comportamentali può beneficiare della TCC per imparare a gestire pensieri e reazioni, ma anche della psicomotricità per migliorare la sua regolazione emotiva e le capacità relazionali attraverso il corpo e il gioco.
Conclusione
Sia la Terapia Cognitivo Comportamentale sia la Psicomotricità sono strumenti preziosi nel supportare lo sviluppo e il benessere psicologico. Conoscere le loro differenze permette di fare una scelta più consapevole, in base alle necessità individuali e al percorso più adatto da intraprendere.
I contenuti di questo articolo sono presentati in modo generale e semplice. Per approfondimenti o informazioni specifiche, è consigliabile consultare siti specializzati o rivolgersi a professionisti del settore.
Autismo: comprendere meglio una condizione complessa
L’autismo è una condizione neurologica del neurosviluppo che accompagna la persona per tutta la vita.
Non si tratta di una malattia da curare, ma di una diversa modalità di percepire, pensare, comunicare e interagire con il mondo. Negli ultimi anni, la comprensione dell’autismo è notevolmente evoluta, portando a una maggiore consapevolezza e inclusione.
Che cos’è lo Spettro Autistico?
Il termine corretto oggi è Disturbo dello Spettro Autistico (ASD), perché le manifestazioni dell’autismo possono variare enormemente da persona a persona. Alcune persone possono avere una vita molto autonoma, altre possono aver bisogno di un supporto continuo. Per questo si parla di “spettro”: un insieme di condizioni con caratteristiche comuni ma livelli di intensità differenti.
I tre livelli di supporto
Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) classifica l’autismo in tre livelli di supporto, in base al grado di aiuto di cui la persona ha bisogno nella vita quotidiana:
- Livello 1 – Richiede supporto: difficoltà nella comunicazione sociale e una certa rigidità comportamentale, ma la persona può spesso vivere in modo abbastanza autonomo.
- Livello 2 – Richiede supporto significativo: difficoltà più marcate nell’interazione sociale e nella flessibilità dei comportamenti. La persona necessita di assistenza regolare.
- Livello 3 – Richiede supporto molto significativo: forti difficoltà nella comunicazione, nei comportamenti e nella gestione dell’ambiente. Serve un supporto costante e intensivo.
È importante ricordare che questi livelli non sono fissi o statici: possono cambiare nel tempo con il giusto supporto educativo, terapeutico e sociale.
Perché non si usa più il termine Asperger?
In passato, il termine sindrome di Asperger veniva usato per indicare una forma di autismo ad “alto funzionamento”, cioè senza compromissione intellettiva o linguaggio ritardato.
Tuttavia, con l’introduzione del DSM-5 nel 2013, questa distinzione è stata eliminata.
Oggi si considera che Asperger faccia parte dello spettro autistico, senza una categoria a sé stante.
Questo cambiamento è stato fatto per evitare confusione e per riconoscere che anche le persone con abilità cognitive nella norma possono avere significative difficoltà nel quotidiano.
Inoltre, studi storici hanno messo in discussione l’uso del nome “Asperger” per motivi etici legati alla figura del medico Hans Asperger.
Non si vuole più associare il termine "autismo" al dottor Asperger perché è emerso che durante il nazismo collaborò con il regime e contribuì a mandare bambini autistici in strutture dove venivano uccisi, anche nelle camere a gas. Per questo motivo, usare il suo nome è considerato offensivo e irrispettoso verso le vittime e le persone autistiche.
L’autismo non è una malattia
Uno dei concetti più importanti da chiarire è che l’autismo non è una malattia, quindi non si cura: è una condizione neurologica, una variante naturale dello sviluppo umano.
Parlare di “guarigione” in questo contesto è sbagliato. Il focus deve essere sul supporto, sulla comprensione e sull’inclusione.
Le persone autistiche non devono essere cambiate, ma comprese. Hanno bisogno di ambienti che rispettino le loro caratteristiche sensoriali, comunicative ed emotive, e che valorizzino le loro potenzialità.
Il movimento per la neurodiversità promuove proprio questo approccio: riconoscere che ci sono tanti modi diversi – e tutti validi – di essere umani.
Conclusione
Parlare di autismo in modo informato e rispettoso è fondamentale per creare una società più giusta e accogliente.
L’autismo non è un difetto da correggere, ma una parte dell’identità di milioni di persone nel mondo. Capire l’autismo significa anche imparare a vedere il mondo con occhi nuovi.
I contenuti di questo articolo sono presentati in modo generale e semplice. Per approfondimenti o informazioni specifiche, è consigliabile consultare siti specializzati o rivolgersi a professionisti del settore